martedì 13 luglio 2010

SULLE STRADE DEL TOUR DE FRANCE - COL DE LA MADELAINE (2000 m.)

L’impresa più dura non è stata pedalare fino in cima al mitico passo di cui parlerò oggi ma raggiungere da Milano il punto di partenza per il Col de La Madelaine, un piccolo centro abitato chiamato Pas de Briançon, poco più di quattro case sperdute alle porte della bassa Tarentaise.

Sveglia alle 4 e mezza del mattino. Otto faticose ore di viaggio tra andata e ritorno, dopo una sosta per un appuntamento di lavoro ad Aosta collocato strategicamente quasi all’alba, alle 8:00, per poi avere il resto della giornata a disposizione. L’autostrada, il traffico, i lavori in corso; poi i due consecutivi Passi del Piccolo San Bernardo, lunghi quasi come una vita, uno per venire in Francia, l’altro per rientrare in Italia. Un’autentica corsa contro il tempo!
Il tratto dal confine italiano a Bourg-St. Maurice, in particolare, sembra non finire mai, con 30 Km di estenuante discesa piena di curve. Piuttosto noiosi sono anche i successivi 40 Km necessari per arrivare all’attacco della salita della Madelaine, da Bourg-St. Maurice sino a Moutiers e quindi a Pas de Calais, che si trova poco oltre il centro di villeggiatura di La Léchère.
Ma il sacrificio del viaggio è stato ben ripagato. Sono passate da poco le 11:30 quando finalmente scarico la bici dall’auto e parto di buona lena. La folla giunta per assistere al passaggio del Tour 2010 è enorme. Centinaia di persone salgono, a piedi o in bici, verso il colle: 24 Km assai impegnativi per i ciclisti. Il traffico veicolare è già stato interrotto sin dal primo mattino.
I primi 5-6 Km della Madelaine presentano subito un bel biglietto da visita: pendenze sempre superiori al 9%, con qualche breve tratto all’8%. Si scavalca nel bosco un primo risalto della montagna, un po’ come nella parte iniziale del Colle delle Finestre, con una lunga serie di tornanti. Ciò che colpisce è la multi etnicità dei tifosi che seguono il Tour: danesi, cechi, norvegesi, americani, neozelandesi, australiani, olandesi, belgi, oltre ai molti francesi e italiani. Non vado molto forte perché le pendenze subito sostenute mi hanno un po’ intimorito. Non conosco la salita, fa un caldo incredibile e non voglio arrivare cotto in cima. Lo zaino è pesantissimo: contiene viveri, bevande fredde, indumenti, una macchina fotografica, una telecamera, attrezzature e ricambi.
Dopo un po’, superato il villaggio di La Thuile (uno dei tanti con questo nome da queste parti) inizia un lungo falsopiano. Ad un certo punto mi sorpassano, a piena velocità, due giovani ragazzini cechi, intorno ai 12-14 anni, forse sono fratelli. E’ un piacere vedere dei piccoli pedalare già così bene: sembrano due piccoli Schleck in miniatura. Magri, tirati, eleganti nei movimenti e per nulla intimoriti dalla lunghezza della salita. Mi accodo a loro, abbandonando ogni proposito di prudenza, e cominciamo a viaggiare a tutta. La pendenza ritorna intorno al 5-6%: adesso andiamo ai 18-20 Km/h. Mi diverto a vedere che i due ragazzini mi controllano, parlottano tra loro e sembrano un po’ indispettiti del fatto che non riescono a staccarmi. Tutti gli altri ciclisti che sorpassiamo, ansimanti e rossi in volto per la calura tropicale, viaggiano ad un’andatura che è la metà della nostra.
Ma anch’io, dopo 3-4 Km a questo ritmo, finisco presto la benzina. Quando, intorno a metà salita, le pendenze tornano superiori al 9-10% lascio andare i due nuovi futuri fratelli Schleck per la loro promettente strada e ritorno a più miti consigli riprendendo un’andatura più consona alle mie attuali condizioni.
Anche salendo ad una media onesta di 12-13 Km/h, il Col de la Madelaine richiede quasi 2 ore per essere scalato. Come due anni fa sul Galibier, a circa 6-7 Km dal valico la strada comincia ad affollarsi di caravan, roulotte ed automobili parcheggiate su entrambi i lati: evidentemente migliaia di persone sono già salite ieri per conquistare i posti migliori lungo il percorso. E’ davvero un imponente e chiassoso accampamento! Improvvisati altoparlanti diffondono musica ad altissimo volume mentre i barbeçue e le griglie sprigionano odori di cibo appetitoso al cui confronto il sapore dolciastro della mia barretta di maltodestrine quasi mi provoca disgusto.
L’anfiteatro degli ultimi tornanti del Col de La Madelaine è maestoso, con ampi pascoli collocati ai piedi di picchi dall’aspetto quasi dolomitico. Gli ultimi chilometri sono particolarmente duri sotto un sole cocente ma ormai il colle è vicino e lo si può vedere ad occhio nudo. Arrivo al valico dove la folla si accalca dovunque e si fatica ad avanzare anche solo di pochi centimetri. Ma nonostante il caos, che impedisce persino di godere il panorama, sono soddisfatto. Con questa salita, infatti, ho finalmente completato la mia collezione delle più importanti scalate di Francia: il Galibier, l’Izoard, il Glandon, il Tourmalet, l’Aubisque, l’Aspin, il Peyresourde, il Ventoux. Cerco un po’ d’ombra e tranquillità per qualche minuto dietro una roulotte e dopo un breve ristoro volante decido a malavoglia di scendere più a valle, perché passata la corsa devo rientrare subito a Milano e non posso correre il rischio di rimanere imbottigliato nel traffico.
La discesa è filante ma occorre prestare attenzione ai numerosissimi ciclisti e tifosi che ancora stanno salendo e che spesso, a causa della fatica, sbandano improvvisamente in mezzo alla strada o addirittura procedono contromano. Ogni tanto mi fermo a scattare qualche fotografia panoramica. Sui prati i tifosi hanno adagiato grandi bandiere americane, norvegesi, lussemburghesi, spagnole… Nei camper molti stanno già seguendo alla televisione la corsa, che oggi affronta anche i colli della Colombière, di Aravis e Saisis. Mi pare di capire dai commenti della gente che Cunego è in fuga. All’improvviso una figura lontana suscita la mia attenzione: l’ormai famoso personaggio caricaturale travestito da diavolo che da anni segue immancabilmente tutte le tappe del Giro d’Italia e del Tour de France è salito teatralmente su una sporgenza rocciosa e tra le ovazioni della folla si fa immortalare da cineprese e macchine fotografiche mentre agita il suo tridente scintillante alto nel cielo.
Perdo circa 800 metri di dislivello e decido di fermarmi ad aspettare la corsa nei pressi del piccolo villaggio di Celliers, dove numerosi tifosi lussemburghesi e norvegesi hanno decorato l’asfalto con bandiere e scritte di incitamento multicolori. Mi associo a loro e ad alcuni simpatici francesi e ci sediamo sul prato mangiando panini e tortine, mentre tra gli scandinavi la birra, portata sin qui in piccole botti, corre a fiumi.
Stiamo lì quasi due ore sotto il sole ad attendere il Tour e finalmente, quando siamo ormai giunti prossimi alla disidratazione, scocca il momento tanto atteso. Prima arriva la sgargiante carovana pubblicitaria preceduta da un’auto che reca montata sul tetto la sagoma di un ciclopico ciclista tutto vestito di giallo. Poi, preannunciati dall’apparizione di tre elicotteri e dell’aereo del ponte radio della TV francese, giungono i primi corridori che sono accolti con un boato dai tifosi. Gli elicotteri scendono bassi sopra di noi occupando ciascuno un diverso tornante per coprire tutte le fasi della corsa: a questo punto nessuno saprebbe più dire se il villaggio di Celliers, così stretto d’assedio, si trovi in Savoia o in Vietnam e il Tour si trasforma per un attimo nel film “Apocalypse Now!”.
Transitano Cunego e gli altri fuggitivi. Seguono dopo qualche minuto i migliori: Basso e Armstrong sono ancora con Schleck e Contador. Verranno però staccati più avanti dopo la micidiale accelerazione del lussemburghese e dello spagnolo, “tirati” inizialmente a velocità supersonica dal gregario dell’Astana Navarro. Quindi passano vari gruppi di corridori attardati, tra cui un rassegnato Cadel Evans in crisi, mentre le ammiraglie salgono a fatica fendendo la folla. I tifosi australiani non nascondono la loro delusione per il crollo del loro beniamino: erano venuti in tanti fin quassù per seguire le sue imprese brandendo molti canguri gonfiabili di plastica gialli e verdi che ora giacciono abbandonati tristemente nell’erba.
E’ tempo di ripartire. Inforco la bici e comincio la discesa ma la Gendarmerie ci ferma perché la corsa non è ancora interamente passata e ci fa accostare. Alcuni ciclisti quasi fuori tempo massimo, letteralmente boccheggianti, arrivano sconsolati seguiti dal camion scopa, passato il quale siamo finalmente lasciati liberi dalla polizia di scendere a valle per finire però nuovamente prigionieri della micidiale calura di questa torrida estate.

Marco Fortis